L’aria fluisce entra nel corpo, ruota, come una
girandola, e si espande. Invade ogni spazio, ogni centimetro per poi fermarsi
e unirsi, anche se per pochi istanti, con ciò che ogni individuo racchiude in
se stesso. E in un soffio svanire e liberare il grande potere creativo che
ognuno porta dentro di sè. E questa liberazione, nello yoga, è conosciuta come
Samadhi: un incontro che avviene fra il sè individuale e l’anima universale,
in un semplice respiro. Nello Hatha Yoga Pradipika, l’antico testo sacro, si
legge: “Il respiro è la chiave per l’emancipazione finale.” Quando è eseguito
correttamente e quando il praticante è pronto, il pranayama è in grado di
fornire un ponte tra il sé individuale e l’anima universale.
B.K.S. Iyengar spiega come le tre fasi del respiro nel
Pranayama - inspiro (pùraka), ritenzione (kumbhaka), ed espirazione
(rechaka), ci possono connettere all’anima universale. Durante l’inspirazione,
stiamo invitando il prana ad entrare. Secondo il guru, il sé individuale deve,
quindi, farsi da parte per lasciare spazio all’anima: ecco che l’energia si
epande e la consapevolezza interiore accresce. B.K.S. Iyengar, quando invita a
pensare al contatto del respiro con il polmone interno come alla connessione,
appunto, tra anima universale e sè individuale. Quando fermiamo con coscienza
il flusso del respiro (ritenzione), organizziamo i pensieri della mente e
l’esperienza del corpo. La lunghezza della ritenzione varia. Dovrebbe durare
solo fino a quando il contenuto (prana) comincia ad allontanarsi dal
contenitore (il polmone). Dobbiamo tenere la mente connessa all’esperienza del
corpo, per sapere esattamente in che momento l’anima e ilsè iniziano a
separarsi l’uno dall’altro. Qui deve iniziare l’espirazione. Sviluppare la
capacità di sentire qualcosa di così sottile, richiede una pratica regolare.
B.K.S Iyengar ritiene che nella respirazione normale,
sia il cervello a iniziare l’azione di inspirazione e tragga energia a se
stesso. Ciò lo mantiene in uno stato di tensione e quindi il respiro è più
corto. Nel pranayama, invece, il cervello rimane passivo, e sono polmoni, ossa
e muscoli del tronco ad avviare l’inspirazione e a trarne beneficio. «Il
respiro – dice il guru - deve essere adescato o blandito, come si cattura un
cavallo in un campo, non rincorrendolo, ma stando fermi con una mela in mano.
Nulla può essere forzato: la ricettività è tutto». Dobbiamo eseguire pranayama
con la nostra intelligenza, non con il cervello, sostiene Iyengar. Praticando e
regolando il flusso di prana con l’osservazione misurata e la distribuzione del
respiro, la mente diventa calma. Quando ciò accade, siamo in grado di portare
all’interno l’energia che normalmente usiamo per gestire e relazionarci con il
mondo.
Gli asana, insegna il guru, rendeno il corpo adatto al
pranayama, e il pranayama rende la mente adatta alla meditazione. Non si può
meditare se il praticante «è sotto stress, ha un corpo debole, polmoni deboli,
muscoli rigidi, colonna vertebrale fragile, mente fluttuante, agitata, o
timidezza». Il praticante, infatti, dovrebbe già avere raggiunto uno stato
rilassato in corpo e mente prima che la meditazione possa accadere. Se eseguito
correttamente e senza sforzo, il pranayama rinfresca e riposa il cervello e
inonda il corpo con energia vitale. Allevia lo stress e, di conseguenza, ci
prepara alla vera meditazione. Iyengar avverte anche che, se in qualsiasi
momento durante la pratica del Pranayama si sente dolore alla testa o tensione alle
tempie, significa che stai avviando il respiro dal cervello, non dai polmoni.
Se ciò accade, torna a un respiro normale e rilassati.
Fonte: un articolo di Leslie Peters
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