Ognuno di noi cerca la pace. E quello spicchio di pace assaggiato durante la pratica yoga e la meditazione evapora nella ricerca estenuante del parcheggio, nella fila al supermercato affollato e nella lavatrice che perde acqua alle due di notte.
Ma quel piccolo spazio può essere mantenuto. Tramite una pratica costante fatta di tante attenzioni. Questa è la prima cosa da tenere a mente. E da ricordare continuamente.
Non soltanto è possibile, ma è l'obbiettivo di chi dello yoga fa una filosofia di vita e non solo una tecnica per farsi passare le arrabbiature e il mal di schiena (che è comunque un ottimo risultato quando si inizia a praticare!). Se dopo mezz'ora di meditazione, alzandosi dal cuscino ci si arrabbia con il proprio partner o con il vicino di casa c'è qualcosa che non funziona. Rimanere calmi in qualunque luogo e in qualunque situazione, questo è yoga. Quando riiusciamo a dire: «succede!», di fronte a ciò che non avevamo desiderato, di fronte al pericolo, all'errore, al dolore, questo è yoga.
Posto che la funzione dello yoga rispetto al nostro quotidiano è identificarci sempre più con la nostra vera natura interiore, che è beatitudine e pace assoluta e, al contrario, non identificarsi più con le emozioni, pensieri, come si realizza tutto ciò?
Scartata la possibilità di abbandonare figli, partner e lavoro, farsi crescere i capelli e andarsene su un eremo himalayano, non rimane che rimboccarsi le maniche ed accettare una buona dose di «fatica» (il famoso tapas di Patanjali, da alcuni tradotto come lo sforzo ardente del praticante spirituale).
Anzitutto praticare sempre la sâdhanâ quotidiana. Sempre alla stessa ora, preferibilmente al mattino presto (l'ideale è all'ora del Brahmamuhurta: dalle 4 alle 6 circa), dedicare un tempo alla pratica individuale fatta di hatha yoga, meditazione, kirtan, a seconda di quello che il nostro maestro (o in ultima analisi noi stessi) abbiamo individuato come prioritario per la nostra crescita.
La meditazione, lo yoga, la preghiera, ci permettono di fare esperienza di quel luogo di calma interiore che è oltre il caos, il turbinio della mente ed il fluttuare delle sensazioni di gioia, dolore e desiderio. Dobbiamo accedere il più possibile a quel luogo per provare a rimanere in pace in tutta la giornata, e non farsi convincere dall'ego che vorrebbe lasciare le cose come stanno e continuare a dominarci con le sue fluttuazioni.
Nell'arco della giornata è importante coltivare il silenzio, mouna, dandogli spazi sempre maggiori. Imparare ad ascoltare più che a parlare: ascolto dell'altro e ascolto interiore. Nel silenzio si incontra sé stessi e non si può avere paura di sé stessi. Nel silenzio si incontra il divino che è in noi, ma se siamo occupati tutto il tempo in azioni e parole, se scappiamo ogni momento di qua e di là a cene, feste, concerti e quando ci fermiamo c'è il telefono, la musica, internet, la tv... come possiamo ascoltare il divino che è in noi?
Altra pratica importante è recitare il proprio mantra il più possibile, mentre si cammina, si sta in autobus, si pelano le cipolle (anche fra le lacrime!)... E cantare il divino con kirtan o canti sacri appartenenti alla nostra fede. Sri Aurobindo riteneva possibile e raccomandava la ripetizione del mantra 24 ore al giorno, anche mentre si legge, si parla, si lavora o si dorme. Il mantra ha il potere di mantenerci in contatto con il divino e canalizzare la nostra attenzione, conscia ed inconscia, su frequenze spirituali.
Data l'importanza delle vibrazioni sonore sulle attività celebrali, è bene sostituire, progressivamente, l'ascolto della musica leggera con mantra, musica sacra o di autori spiritualmente ispirati. Di solito questo accade spontaneamente, insieme al cambio della dieta da carnea a vegetariana. Scegliere di mangiare cibi sattvici, puri, è fondamentale perchè cambia le qualità della mente da agitata, nervosa o pigra in una mente positiva e benefica.
Ma cosa succede se mettendoci a letto dopo una bella minestra vegetariana al suon di mantra il vicino adolescente fa una festa tecno-house fino alle tre di notte? O se ritiriamo dalla tintoria il vestito giallo diventato a pois? Nella vita quotidiana si incontrano sempre difficoltà e anche lo yogi ne incontrerà di continuo.
Lo yoga non è nelle classi, negli âsana, lo yoga è nell'esperienza dell'unità nella vita quotidiana.
Nelle classi si impara la flessibilità del corpo, e questo è solo un riflesso della nostra flessibilità interiore, delle nostre potenzialità di cambiamento. Come il corpo può flettersi e cambiare, così può lo spirito. Essere centrati, calmi, generosi, avere amore e condivisione verso gli altri. Questo è yoga. Diamo il giusto peso e valore alle cose. Non possiamo essere come una tv o una lampada che si accende e si spegne, di cui gli altri hanno il telecomando. Se una telefonata o un imprevisto può cambiare l'umore, dopo una lezione di yoga, quel relax non è reale.
Gli esseri umani sono esseri complessi e fragili e spesso passano il tempo su questa terra a farsi male l'un l'altro. Anzitutto comprendiamo questo: non c'è crudeltà, anche nel gesto più orribile che ci viene rivolto. C'è umana difficoltà. Umana incapacità di aprirsi e relazionarsi a cuore aperto. Umana paura.
Dobbiamo provare a sentire la povertà di chi si relaziona a noi con prevaricazione. E provare compassione. Praticare la compassione per l'incapacità umana il più possibile. È forse questo uno dei compiti più difficili, perchè, come diceva Gandhi, il perdono è la qualità del coraggioso, non del codardo.
Il cuore dello yogi è senza rancore e senza paura, non può essere offeso dalle umane debolezze, e rimane imperturbato davanti agli errori ed alle miserie umane. E se proprio sentiamo salire nervosismo, ansia, rabbia o ci sentiamo divenire preda di emozioni o pensieri, prendiamone consapevolezza e pratichiamo un prânâyâma o il respiro consapevole. Portando l'attenzione da queste vritti mentali al respiro, calmiamo la nostra mente. Ricordiamo sempre di osservare dall'esterno le emozioni ed i pensieri, perché noi NON siamo i nostri pensieri ed emozioni.
Noi vorremmo essere il centro della vita, ma non lo siamo. Impariamo a praticare l'abbandono a qualcosa di più grande di noi, (Ishwara Pranidana) e consacriamo al Divino ogni azione. Offriamo e ringraziamo per ogni risultato, ogni traguardo, ogni dote, ogni cosa buona che sappiamo fare e ricordiamo che le nostre qualità ci sono state date per metterle al servizio degli altri.
In India, ogni mattina, prima di qualsiasi attività si fa visita al tempio compiendo tre giri intorno a esso. Questo rito ricorda che ogni nuovo giorno è un regalo di Dio (o come lo si vuole chiamare) o, se preferiamo, un'offerta da parte nostra a Dio di tutto il nostro operato.
Parliamo con il divino che è in noi come fosse un amico, dedicando almeno un momento della giornata (magari prima di andare a dormire) a questa pratica. Abbandoniamoci, chiediamo di mostrarci il cammino e raccontiamogli i nostri dubbi e paure. Più diventiamo centrati in noi stessi ed in contatto con il divino, più la cosa giusta da fare, le cose belle ed i traguardi diventeranno realtà nella nostra vita.
A volte avremo momenti di scoraggiamento, e forse invece di un mantra vorremmo dire qualche parola non proprio consona al linguaggio di uno yogi. Questo è normale, umano, non significa che abbiamo sbagliato tutto o che lo yoga non serve a niente. Dobbiamo perseverare. Continuare con la sâdhanâ, continuare a fare introspezione e indagare su noi stessi, a leggere dello yoga e delle esperienze dei grandi maestri, cercando di vedere sempre, in ogni impedimento, nemico, dolore, difficoltà, un maestro da cui possiamo imparare tante cose e progredire sul cammino della vita e della spiritualità.
Facciamo di qualunque evento e qualunque circostanza spiacevole un'occasione di sâdhanâ. Non rifuggiamo il sacrificio. Il sacrificio ci aiuta a distruggere l'ego. Noi tendiamo a rifiutare attività, luoghi, situazioni che non ci piacciono: non è una nostra scelta, ma l'ego che vuole conservare le cose come sono e rafforzare sé stesso.
È attraverso il dare agli altri che riduciamo il nostro ego. Doniamo quindi agli altri azioni, tempo, amore. Facciamo karma yoga, servizio disinteressato, per la famiglia, gli amici, la società intera.
Proviamo a fare attenzione a quante volte al giorno pronunciamo le parole «io» o «mio». Notiamo l'enfasi e l'orgoglio con cui le pronunciamo. Continuiamo a dire: «io ho fatto, io ho detto». Ma nulla appartiene a noi. L'ego è legato all'orgoglio, al possesso e questi sentimenti non permettono la pace. Lo stesso vale per la volontà che spinge a rincorrere cose, oggetti, desideri ad un ritmo incessante: ottenuto uno, se ne vuole un altro.
Lo yogi moderno, di campagna o di città, nella sua vita quotidiana non fa che ripetere a se stesso: «Io voglio la pace». Come mi disse un giorno, in India, un guru: «E' semplice. Basta togliere l'«io» ed il «voglio» e si ottiene la pace».
Tratto da un post di Tiziana Risi. Fonte www.yoga.it
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